giovedì 27 marzo 2014

Barbablù: alla ricerca delle origini del male, contro le ipocrisie della società

Avevamo lasciato la sala del TeTe, a novembre, sperando in una risposta: perché Barbablù entra in scena, perché in quel preciso momento e senza apparente motivo?
Sono passati quattro mesi e, a rifletterci bene, una risposta poteva benissimo non esserci, o meglio, la risposta poteva tranquillamente risiedere nell’ovvio: Barbablù è la favola dell’uomo che impone e della donna che subisce, il carattere di ciascuno valga da giustificazione all’agire. Ma una risposta di questo tipo avrebbe deluso, e i perché sono tanti: non è questa la poetica di Peso Specifico Teatro e della sua regista-drammaturga Roberta Spaventa, non è questo il messaggio che anima la rassegna FunamboLa (contenitore scelto per presentare lo spettacolo) e, soprattutto, non ci sarebbe stata differenza tra questa e le numerose letture, teatrali e non, che la favola ha avuto. In sintesi, la domanda sarebbe diventata: a che pro? Francamente, non ne sarebbe valsa la pena.


Invece la risposta è arrivata, e il lavoro presentato non ha deluso le attese. Lo studio di novembre fa da zoccolo duro nella prima parte dello spettacolo: la partitura fisico-emozionale delle due attrici in scena non cambia, acquista maggiore fluidità grazie anche ai ritmi più ragionati nell’alternare scatti rabbiosi a momenti di grande intimità tattile, mentre il dualismo caratteriale fa ancora da binario conduttore nel racconto della crescita dell’identità femminile tra le pieghe e le catene dell’opinione comune. Rimane anche il riferimento all’idea della femminilità come habitus, e le dolci parole del Cantico dei Cantici questa volta nascono direttamente dalle bocche delle due fanciulle, mentre indossando le loro gonne ampie, con le note dell’Ave Maria di Shubert che introducono questo momento di alta emozione, ultimo istante di innocenza prima della definitiva coscienza caratteriale. Lo spazio vive e respira con più consapevolezza nel descrivere le due diverse entità femminili, e se da una parte troviamo la donna che subisce dimenandosi (Francesca Iacoviello) e la continuità del suo movimento, eterno carillon che incarna la circolarità del male, al centro assistiamo al movimento lineare dell’altra donna, colei che sorride ingannandosi (Cristina Carbone) e lo spasmo del suo desiderio. A questo punto inizia a manifestarsi Barbablù: sono piccoli richiami sonori quelli che l’ombra misteriosa lancia alle due fanciulle, quasi degli ordini espressi in codici capaci di agire sull’inconscio e di portare i fluidi movimenti della donna all’automatismo e all’assunzione di posizioni statuarie, a ricordare agnelli piegati dal sacrificio ma anche samurai pronti alla lotta. Perché è questo il barlume di luce che dall’ingresso di Barbablù in poi anima lo spettacolo: la possibilità di lottare, di scegliere, di giocare la propria battaglia d’identificazione senza cedere agli indici puntati della società e del pensiero comune. Ma tutto questo si chiarirà agli occhi dello spettatore a tempo debito: siamo ancora nel buio del bosco, ora, in quel caos di emozioni e paure che vivifica la fase centrale del cammino di ciascun essere umano, uomo o donna che sia, e le due si ritrovano schiena a schiena, ginocchia al petto, a rispondere al gioco dei richiami sonori dell’ombra che le cerca, le attrae, le identifica. Il primo segnale di presenza tangibile dell’uomo è la parola scritta che definisce il territorio dell’agire e dà inizio all’opera di persuasione: dei post-it gialli identificano le porte del castello di Barbablù, e ogni frase riportata è un richiamo che permette alle due donne di ritrovare la nenia della loro infanzia, la placenta di conoscenze e luoghi comuni che le ha avvolte nella loro ricerca dell’io e nel loro modo di pensare l’altro. È questo l’amo che le porta a entrare dentro, a vivere l’incontro con quest’uomo come si vive il primo amore, con la giusta dose di innocenza e incoscienza. 


Così la donna (un singolare che si sdoppia nei due personaggi in scena) accetta di varcare la soglia e di continuare la sua crescita sotto il segno del maschio che domina: è lui a cantare la canzoncina di buon compleanno, è lui a sorprendere con regali impacchettati e a incoronare la femminilità con una lunga fila di perle rosse (da sottolineare come lui regala ma loro legano intorno al collo, perché se è vero che sono gli altri a metterci al guinzaglio è pur vero che spesso siamo noi a definirci sempre più vittime) ma è anche lui a spegnere la candelina e a esprimere il desiderio, perché lui è l’incarnazione del desiderio della donna: è unico, fuori dalle righe, stravagante, nel suo mondo fatto di suoni e richiami creati appositamente per dirigere e veicolare l’attenzione, lui è la star, come testimoniano le lucine rosse da night-varietà che illuminano Barbablù (Santo Marino) nel suo attimo di gloria eterna. Si gioca all’uccellino in gabbia vittima dei desideri sadici del gatto che si diverte a regalare piccoli momenti di gioia, mentre conduce la vittima verso la tortura finale, e tra questi rientra il dono della scelta. Compare la chiave di Barbablù tra i regali che la crescita consegna nelle mani della donna, compare la possibilità di scegliere tra il rischio del sapere o la soppressione del desiderio perché vittima della paura, si reitera l’archetipo della donna che coglie la mela e condanna al male. Ma tutto prende un’altra piega: una volta scelto il sapere, entra in campo la violenza di Barbablù ed entra in scena Michela Rosa. Altra figura di donna, priva di colorazioni emotive, che accompagna l’uomo nell’espressione della violenza offrendosi come partner in una danza fatta di cadute e rialzi, e terminata con uno strappo deciso alla collana di perle, icona perfetta delle teste mozzate ma soprattutto rottura decisiva nella lettura della fiaba. 


L’uomo si rivela, sotto la maschera perfida di Barbablù, vittima non meno della donna; vittima di un dover fare, un dover essere, e la partitura cinesica che vive sul volto di Marino è mappa perfetta che guida nella scoperta del vero senso dello spettacolo: sono tutti vittime, siamo tutti vittime e, quindi, siamo tutti possibili eroi capaci di opporci, di reagire. Di fronte al fatto compiuto l’uomo (o la donna) prende coscienza e coraggio, è arrivato il tempo dell’abiura: Barbablù viene spogliato dalle sue vesti di cattivo, e le porte si chiudono su quel mondo da cui si può scappare, da quella realtà che può essere sconfitta. Ora è tempo della catarsi, ora la Iacoviello e la Carbone sono vestite in abito da sera mentre la terza donna pone fine al suo ruolo archetipico portando in scena il simulacro del male, lo sgabello su cui sale l’umanità per essere giudicata e condannata. È un continuo di dita puntate, giudizi gridati, dialoghi soffocati dalle urla dell’incomunicabilità. C’è aria di tragedia vera, di solitudine che non ce la fa a rialzarsi perché schiacciata dal macigno del male di vivere “secondo il pensiero comune”. C’è una circolarità del male che impedisce la fuga, che piega i corpi, che storce i visi, che caccia fuori la bestialità da ogni vittima fino a trasformarla in carnefice, continuando nella distribuzione casuale dei ruoli. Ecco come finisce Barbablù: nella denuncia del male sociale che non ha distinzioni sessuali, solo limiti culturali. È una favola che potrebbe finire bene, se solo si prendesse coscienza dell’importanza di valicare i confini e di ritrovare un equilibrio individuale.

Visto al Teatro Tempio di Modena il 21 marzo 2014


Elvira Scorza

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