venerdì 20 dicembre 2013

Lavori in corso a Barcellona: la compagnia Barò d'Evel Cirk Cia va in scena


Per i non addetti ai lavori, Obres, uno spettacolo della compagnia franco-catalana di circo contemporaneo Barò d'Evel Cirk Cia, appare fin dal primo istante come un cantiere a cielo aperto, con l'andirivieni di operai che, come automi impazziti, comunicano tramite walkie-talkie, rincorrendosi in uno spazio costellato di cartelli che segnalano le “obres” in corso. Ogni angolo trasuda terra, polvere. Ogni angolo trasuda l'essenza dell'accadere: gli spettatori si ritrovano immersi nelle profondità del processo creativo, che si preannuncia essere un lungo viaggio.

Il pubblico, con ancora il biglietto d'ingresso nella mano e nell'altra il tagliandino del percorso itinerante, nel momento in cui varca la soglia dell'immenso atrio del Mercat de Las Flors, è già divenuto parte di quel processo frenetico senza nemmeno rendersene conto; micro particella del rincorrersi dei martelli, delle tenaglie, delle campane che disorientano continuamente lo sguardo dello spettatore. Uno sguardo che lo trasforma in un casuale visitatore che, aldilà delle impalcature e delle ultime verniciate alle pareti, inizia a costruire a sua volta, tra le zappe, le pale, i rastrelli e le vanghe, il proprio viaggio.


Ecco svelato il primo tassello indispensabile per poter partire lungo i livelli stratificati del cantiere: ovunque, lavori in corso.


La meta, aldilà delle apparenze, non è quella del circo fatto di acrobazie, di salti, e di un uso selvaggio di animali. È un viaggio che si racconta nel compierlo, che parla, sussurra, si apre a mille linguaggi differenti: la danza, i suoni, le parole, la pittura. Mondi equidistanti che si sfiorano reciprocamente in quello che diviene un percorso sonoro, figurativo, emozionale, riportando tutti i visitatori al loro stato più primitivo: quello animale.

L'attesa. Questo il primo momento in cui si trovano completamente immersi gli spettatori.
L'attesa necessaria per capire il proprio posto nello spazio: non a caso all'ingresso, viene consegnato un tagliandino per essere divisi in piccoli gruppi. Ciascuno deve seguire il proprio segnale: rastrello, pala, vanga o zappa?
E poi di nuovo l'attesa nel vedere un primo reale inizio, oltre la frenesia dei lavori in corso.

Il punto zero da cui partire proviene dall’elemento più basilare, la terra: da essa, all'interno di una voragine in una costruzione di legno posta al centro dell'atrio, spunta la testa di un uomo, che si risveglia ed inizia a ballare insieme ad altri addetti ai lavori che ritornano poi con lui nell'oscurità degli abissi sotterranei.
Ci cadono dentro tutti, rispuntano poi da laggiù con i vestiti, i capelli, le bocche che trasudano terra.
I corpi dei ballerini si decostruiscono nei movimenti, lasciandosi attraversare dalla pesante materialità della terra, fondendosi in essa, in quegli stessi granelli che, scossi dai loro ondeggi, zampillano in aria.

Una voce tremendamente acuta sembra provenire da quello stesso buco nero che risucchia i corpi e li riporta alla luce: accompagna la loro scomposizione, fondendosi con i rumori freddi dei martelli che non smettono di scolpire il tempo.
All'improvviso i ballerini sembrano accorgersi della presenza di alcuni estranei e così si affrettano affinché ciascun gruppo possa iniziare il proprio viaggio.
Seguendo il lampeggiante rosso, prende il via l'ascesa all'interno dei meandri del cantiere.
Si sale lungo scale a chiocciola, si attraversano lunghi corridoi, tutti costellati da pitture bianche, disegni (forme di emoticons tristi o felici) o scritte (sì o no).

Prima tappa, la danza di una donna con la testa di cavallo o meglio, la danza di un cavallo con il corpo da donna. Nessuna musica accompagna il trotto, il chinarsi, lo sdraiarsi, l'ondeggiarsi dell'animale. Solo tante, continue gocce d'acqua scandiscono il ritmo della danza, cadendo in tanti piccoli catini che delimitano lo spazio scenico. Prima lente, poi veloci, fino ad arrestarsi, solo per un attimo, brutalmente. Segnano l'incedere del tempo, un tempo che unisce uomo e animale e che riporta chi osserva ad entrare acutamente e profondamente in quel ritmo incalzante.
Le luci scompaiono ed allora le gocce diventano una cascata scrosciante che invita il pubblico a rialzarsi e a proseguire il proprio viaggio. 

Si continua così a salire lungo le gradinate, accompagnati, durante il percorso, da un'unica goccia che dal soffitto cade giù fino all'atrio della scalinata. Si entra così in un altro mondo animale, quello delle scimmie: infatti una ballerina, aggrappata ad un palo al centro della sala, se ne sta attonita, ad osservare il pubblico. Inizia a scendere, gambe penzoloni verso il nostro mondo umano, non staccando mai la mano dalla coda dei capelli. Si origina una vera e propria lotta tra il corpo della ballerina e lo spazio che la circonda: movimenti estremi, acrobazie al limite dell'improbabile si sviluppano intorno a quella mano che non si può e non si vuole staccare dalla coda. La ballerina rappresenta un conflitto  tra il mondo umano e quello animale, che diventa ancora più visibile nel momento in cui finisce la sua performance, uscendo dalla scena con un uccellino sulla testa.

Arriva il momento di essere trascinati da un'altra danza. Questa volta a piroettare sono i pennelli degli stessi addetti ai lavori che disegnano su uno schermo bianco una storia, la raccontano. La narrano dietro il telo, oltre i tratteggi e le linee che si definiscono sulla tela. Disegnano prima il cervello di un uomo, dai mille e confusi meandri, e di fronte a lui un'altra faccia dalla cui bocca esce una corda che la collega al cervello. Un dissidio forte, profondo, che sembra rimandare alle voci e ai conflitti umani interiori che prendono forma, materializzandosi in una duplice personalità dell'individuo. I pennelli continuano a cancellare parti dei due visi fino a non lasciarne più traccia, aldilà di una cascata di zampilli marroni che disegnano una danza, una lotta tra uomini. Dietro al telo si intravedono le ombre degli addetti ai lavori che vanno a fondersi con le immagini sullo schermo. Si assiste così alla pittura di una danza che si fa materia viva, composta di immagini che  ondeggiano sinuosamente.


Si inizia a scendere, e questa volta riappare un addetto ai lavori che comunica tramite walkie-talkie, e raccomanda ad un altro operaio di non lasciare gli animali soli e fare in modo che non si perdano sennò soffriranno. Il riferimento ironico al pubblico come reale animale dello spettacolo viene da questo momento esplicitato chiaramente.
Così  il gregge di uomini continua a seguire la luce lampeggiante rossa, si esce dall'edificio del Mercat e ci si ritrova di fronte ad un cavallo reale. L’animale guida ed accompagna i visitatori fino all'ingresso di una nuova tappa: un lungo corridoio fatto di carta, dalle mille forme e colori. Camminando lungo il percorso si incontra Vincenzo, un uomo semi sotterrato nella terra. Spiega come il cervello dell'uomo sia molto simile ad un cavolfiore e come l'essere umano si ostini a non trasformare le proprie azioni, a non muoversi. Benché si rifiuti, arriverà ugualmente a compiere un cambiamento, trascinato da tutto quanto lo circonda. Sarà il vento a rompere l'immobilità.
Un'elica enorme inizia infatti a sbuffare e i visitatori si lasciano andare, passo dopo passo, alla meta successiva.

Tutto quello che ci si aspetta, arrivando in un'arena, è di compiere l'ultima tappa, questa volta tutti riuniti in un unico grande gruppo.
Si assiste così ad una danza corale, tra ballerini e cavallo, dove quest'ultimo detta il ritmo dei movimenti degli altri. Tutti a seguire lo stesso movimento, dove a tratti non si riesce a distinguere chi sia l'animale e chi l'uomo, in un armonioso equilibrio, sempre a stretto contatto con la terra che resta inizio e fine dell'itinerario.
I ballerini lasciano la scena, e così si ritorna nell'atrio principale del Mercat, dove si materializza l'epilogo dello spettacolo, tra musiche e balli: uno degli addetti ai lavori disegna su alcuni cartelli uomini-cavallo che zappano la terra.  Si celebra così il compimento di un lungo viaggio.

Obres squarcia sicuramente il Mercat de las Flors: il libero sfogo di una creatività finora impensabile tenta di  ricontestualizzare la posizione dello spettatore prima e dell'individuo poi. Ironico, pungente lo sguardo dei registi, Blai Mateu e Camille Decourtye, nei confronti del pubblico e più in generale della società: costretti e condannati a seguire il vento, gli spettatori sono incapaci di opporsi e di reagire per modificare il corso degli eventi, tali e quali a un gregge belante.

L'itinerario diviene così una lunga e profonda metafora dell'oggi, dell'imbruttimento di una società preda di sé stessa, della voragine dei consumi, di uomini incapaci di modificare il ritmo del tempo, schiavi d'esso e di sé medesimi.
Un ritorno all'animalità che non vuole essere proposta come una cosa meschina, ma anzi, come una tra le poche àncore di salvezza. Il proposito della compagnia è quindi fin troppo esplicito e forse un po’ banale: se l’uomo risulta essere il più animale tra gli animali, meglio cercare di ritrovare l’innocenza e la purezza dei veri animali.
Ma il gruppo Barò D'Evel Cirk Cia riesce a condurre il proprio discorso con un inizio ed una fine credibili, riconducendo tutto alla natura delle cose, del tempo, dello spazio che si racchiudono nella creatività del teatro. E della vita, in sostanza.

Notevole il lavoro artistico, dove danza, pittura, ritmo sonoro, rapporto in sinergia con gli animali riescono a far rodare in maniera efficace gli ingranaggi di una macchina complessa.
Scenicamente, appare chiara la frammentarietà dei corpi dei ballerini, uniti dalla necessità di farsi particelle piccole, impercettibili a stretto contatto con le radici della terra: le stesse da cui troviamo origine, da cui fuggiamo e a cui torniamo sempre anelanti di curiosità rispetto a quell'oscurità che cela ciò che non si può e non si riesce a vedere.


Un'illuminante immagine degli infiniti viaggi, continuamente in obres, in costruzione, che si compiono nel teatro e nella vita. Vengono in mente i versi di una canzone di NiccolòFabi “… E in mezzo c'è tutto il resto, e tutto il resto è silenziosamente costruire...”.

Visto al Mercat de Las Flors, Barcellona il 15 dicembre 2013 

Carmen Pedullà
  

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