domenica 24 novembre 2013

I Trocks: donne per la Danza, uomini per la Vita


La sagoma di un castello immerso nelle tenebre, la scena spoglia di allestimenti, il sipario inesistente e gli elevati teli neri delle quinte: questa è l’accoglienza prevista per il pubblico di amatori dell’arte coreutica, fin da subito coinvolto nell’atmosfera drammatica e classicheggiante che la stessa architettura dell’edificio suggerisce. Calano, dunque, fiocamente le luci in platea e una voce fuori campo demitizza il contesto accademico dell’evento, elencando le coreografie che saranno presto eseguite e, soprattutto, i nomi del cast di danzatori talmente buffi e ironici da infrangere il silenzio religioso dell’Auditorium con un’eco di sguaiate risate e applausi di approvazione. Questo il biglietto da visita de Les Ballets Trockadero de Monte Carlo: la danza non è solo sinonimo di disciplina e sacrificio, ma anche di gioia ed entusiasmo.

 
 E come non intraprendere questo viaggio cominciando proprio dal balletto classico per eccellenza, Il lago dei cigni, di cui viene esposto interamente il secondo atto, sicuramente il più celebre quanto virtuosistico. I quattro protagonisti non esitano troppo a lungo a calcare il palco, impreziosendo l’azione scenica di costumi variopinti, gag esilaranti, assoli e pas de deux tecnicamente impeccabili, ma qualcosa, comunque, confonde gli sguardi ipnotizzati degli spettatori: l’eleganza dei passi e la malizia degli ammiccamenti di Odette, incorniciati dal trucco facciale rievocante lo scintillio delle più famose Drag Queen, discorda con l’imponenza del torso muscoloso. Sarà forse questo il sortilegio del diabolico stregone Von Rothbart? Ebbene, no. Si tratta proprio di un uomo, Robert Carter, aitante ballerino di origine afro-americana, star internazionale del balletto classico-accademico.



La sua apparizione en travesti non sarà l’unica: picchiettando il pavimento in traiettorie diagonali con velocissimi pas de bourrée couru surles pointes, otto ballerini in candido tutù romantico e ciglia troppo voluminose per rappresentare gli eterei volatili lacustri, si muovono in maniera volutamente maldestra, beccano verso il pubblico e riproducono perfettamente il verso dei cigni, mimando persino la fase di nuoto attraverso degli arabesque saltellati e coordinati a bracciate in stile rana e cagnolino. La comicità dell’intera sequenza coreografica, però, non riesce a mascherare le evidenti imprecisioni di coordinazione ed equilibrio, dettate forse da un eccesso d’emozione o d’inesperienza. Fortunatamente con il famosissimo passo a quattro, imbastito dai magistrali virtuosismi ironici di Davide Marongiu sconfinanti nel mondo del can can parigino finanche al salto della corda fanciullesco, il riso del pubblico torna sovrano e la gioia della visione diviene sempre più inarrestabile.
Il lavoro coreografico di Lev Ivanovich Ivanov si accinge a concludersi, ma, di contro, la musica di Čajkovskij incalza precipitosamente e si disperde in un climax ascendente di developpé, grand jeté, manège di giri piqué, singoli e doppi, che sfortunatamente non riescono a occultare la fatica di salire sulle punte ed interpretare la leggerezza di un “volo” cignesco: difatti l’ultima sequenza di pirouette della protagonista, accompagnata dalla spinta dell’altrettanto provato partner, fa sfoggio di quella retrograda quanto antiestetica disciplina accademica russa che frantuma l’incanto del giro con un mero frullare, sulla stregua delle trottole da pattinaggio artistico su ghiaccio. Ma alla compagnia dei Trocks, in fin dei conti, importa ben poco di proporsi come vessillo di perfezione e sublimità, tanto da ridicolizzare persino il momento dell’applauso finale con annessa consegna dei fiori all’étoile.


Abbandonando l’algida atmosfera del paesaggio lacustre incantato, le luci s’infiammano all’ingresso di una seducente ballerina latino americana, divoratrice dell’attenzione del pubblico durante l’intera esecuzione del Pas de Deux tratto dal balletto Don Chisciotte di Marius Petipa. Questa piccola saetta, dalle doti corporee degne di una prima ballerina del Teatro Bol’šoj di Mosca, non è altro che Carlos Hopuy, famosissimo danzatore cubano e pietra miliare dei Trocks, che attraverso capriole e schiocchi di dita, ma anche giochi col ventaglio e virtuosistici fouetté, regala alla città di Bologna un piccolo stralcio di vitalità e passione ispanica.
Dalle spagnoleggianti melodie, intessute egregiamente nelle vicende del condottiero visionario di Miguel de Cervantes, lo spettacolo si catapulta in un tempo ancor più remoto, quando lo strofinio delle corde degli archi allietava le feste di corte e lo sfarzo dell’oro e del pizzo inghiottiva le case e le genti di elevato rango sociale: il Barocco. La compagnia en travesti, di contro, rinnega l’ostentazione di quel lusso portentoso, vestendo i sei danzatori protagonisti di soli body e gonnelline neri, e proclama in forma di danza la gioia di vivere che le note del Concerto Brandeburghese di Johann Sebastian Bach suggeriscono ai sensi, insieme con i fiocchetti rossi simbolo della lotta contro l’AIDS.
Prima dell’ultimo tragitto nel repertorio classico-accademico, Paul Ghiselin, nella cornice di candido occhio di bue, delizia lo sguardo con un cult dei Trocks. Una pioggia di piume bianche, accartocciamenti da indigestione, capogiri e braccia storte sono i sintomi, assolutamente caricaturali, della morte di Odette, il cigno bianco, che, nonostante l’enfatizzata bruttezza del trucco facciale, conferisce alla pièce quell’immenso splendore performativo che travalica le barriere della Storia per attraversare quelle del Mito.


Le risate del pubblico non sono ancora del tutto scemate quando Marongiu rientra in scena nei panni della Dama Bianca che, come annota la didascalia del libretto di scena, a volte è una statua, a volte un fantasma, ma comunque un enigma. Si posiziona esattamente al centro del fondale, pietrificandosi in un sorriso di plastica e reggendo una torta nuziale tra le mani: sono stati tutti invitati al matrimonio di Raymonda e del Conte Jean de Brienne, suo sposo.


Le quattro damigelle, ornate di uno sgargiante tutù arancione, si contendono la scena coi propri assolo, ammaliando il pubblico con occhiolini, rotazioni del bacino da salsa cubana e immancabili batterie di salti e giri classico-accademici. Ma la vera regina del palcoscenico è la sposa, interpretata dal connazionale Raffaele Morra, che agguanta la completa attenzione del pubblico con una danza sempre più accelerata dal battito delle mani e dagli innumerevoli fouetté, ispiratori di un vago isterismo collerico, forse tipico di ogni donna maritata smaniosa di un ricordo perfetto del giorno più bello della propria vita.

Visto al Teatro Auditorium Manzoni, il 18 novembre 2013



Marco Argentina

Nessun commento:

Posta un commento